Da bambino ho ascoltato un’infinità di volte album di Guccini e De André e Bertoli e Jannacci e tutto quel genere di cantautori, che suonavano sul giradischi Philips in sala a casa dei miei.
Alcune di quelle canzoni mi piacevano – come possono piacere a un bambino. Innamorato già allora delle automobili, in particolare impazzivo per Aveva un taxi nero di Jannacci.
Questa sorta di ascolto passivo è proseguito più o meno fino all’adolescenza quando, ripresa in mano la tastiera prima e la chitarra poi, mi tuffai a capofitto nella musica angloamericana. Un sacco di roba anni sessanta, ma anche ottanta e novanta e poi primi duemila. Quindi Beatles e Kinks e Velvet Underground e Who, ma anche Clash, Cure, Smiths, e Oasis, Smashing Pumpkins e tanti altri nomi.
Ho fatto suonare allo stereo alcuni di questi dischi fino alla nausea, così come ho suonato alla chitarra o al pianoforte alcune di queste canzoni fino a stancarmene.
Ogni artista, ogni gruppo ha rappresentato anche una parentesi della mia vita, la sua colonna sonora ma forse qualcosa di più; un modo di essere in quel periodo. Non si ascolta la trilogia dark dei Cure senza vestirsi di nero qualche sera, non si ascoltano gli Smiths senza rincorrere un qualche romanticismo.
Ad un certo punto, non so dire bene quando, sarà stata l’abbuffata anglofona, sarà stato l’imprinting dell’infanzia, mi sono riavvicinato a quel meraviglioso mondo del cantautorato italiano.
Cosìcché adesso guardando il mio scaffale vedo alternarsi Gaber e Pink Floyd, De André e Belle & Sebastian.
Qualche settimana fa ho ricevuto in regalo, da mio padre, un cofanetto di Guccini. Conosco la maggior parte delle canzoni che contiene ma ce n’è una, Osterie di fuori porta, che curiosamente non sentivo da quando ero bambino. Ritrovare all’improvviso quella melodia dopo tanto tempo mentre scorreva il CD, inattesa ma familiare, mi ha regalato la sensazione di un fugace e tenero salto nel passato. Che evidentemente vive sempre in qualche modo, dentro di noi.